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Variando molto a seconda dell'epoca, del paese, del diritto e del tipo di contratto matrimoniale scelto dai contraenti e dalle loro famiglie, la dote ha assunto diversi significati:

  • contributo da parte della famiglia della sposa alle spese del matrimonio e ai beni della nuova famiglia,

  • valorizzazione della sposa,

  • indennizzo/anticipazione alla figlia dell'eredità dei genitori in occasione del suo distacco dalla famiglia di origine,

  • tutela della moglie grazie alla cessione al marito del solo usufrutto dei beni oppure grazie all'obbligo di restituzione della dote in caso di separazione o morte del marito oppure grazie al necessario consenso di lei nell'uso dei beni, ritorno dei beni residui alla famiglia originaria di lei in caso di morte della moglie.

La presenza o l'assenza di alcuni dei suddetti aspetti ha fatto sì che la dote potesse essere una forma di tutela della sposa ma anche il contrario, arrivando ad essere uno dei moventi non solo del matrimonio ma anche della separazione o dell'omicidio della sposa. L'applicazione o meno dei suddetti criteri oltre che essere regolato dalle leggi, in epoche e contesti in cui le leggi non erano applicate o applicabili, era garantita dalle prassi delle comunità locali e il rispetto reciproco tra le famiglie.

STORIA DELLA DOTE

Nell’antica Grecia la dote poteva essere dote “diretta” se costituita da beni della famiglia della sposa o “indiretta” se proveniente da regali fatti alla sposa in occasione del matrimonio. L'ammontare della dote dipendeva dalla generosità del padre o del fratello e in generale, dipendeva da vari fattori: la ricchezza di colui che forniva la dote; il numero di fratelli e sorelle; le convenzioni in uso nel gruppo sociale al quale apparteneva la famiglia. Oltre al corredo la dote poteva consistere in denaro e persino in schiavi. La dote era vincolata: né il padre, né il tutore, né il marito o la donna stessa potevano disporne legalmente poiché garantiva la sopravvivenza della moglie anche nel caso di divorzio o vedovanza.

L'uso di trasmettere alcuni beni con il matrimonio è sancito nel diritto romano con lo scopo duplice di indennizzare la donna che uscendo dalla famiglia di origine perdeva il diritto all'eredità paterna e di contribuire alle spese del matrimonio.

Il codice giustinianeo del VI secolo la rese obbligatoria; questo istituto, seppure modificato, è sopravvissuto in Italia fino al 1975, quando, con la riforma del diritto di famiglia, è stato vietato.

Tradizionalmente in Italia nelle società contadine la dote era costituita da una cassapanca contenente il corredo che doveva consistere in un certo numero di lenzuola, tovaglie, piatti, bicchieri ed altre suppellettili per la casa.

IN ITALIA: Con la riforma del diritto di famiglia del 1975  il nuovo testo del Codice civile dispone  il divieto di costituzione di dote, sentita come un retaggio del passato.

La dote matrimoniale

Il rinascimento si caratterizza per la nascita delle grandi università, le donne sono completamente escluse dal mondo accademico, ma diventano un potente motore nell’organizzazione e nella gestione della sanità: n’è chiaro esempio l’influenza che ebbe Bianca Maria Sforza nella decisione del Duca di erigere nel 1456 lo Spedal Grande della Nunciata o Ca’ Granda. Nella storia di questo grande ospedale caratteristica  sarà sempre il connubio fra famosi chirurghi e nobildonne benefattrici. La chirurgia si differenzia sempre più dalla medicina assumendo il suo ruolo e dignità, si comprime lo spazio di barbieri, cerusici e praticoni. Il Moscati dal 1759 impartisce anche lezioni “de partu”, sulla scia di quanto aveva visto a Parigi, nasce così l’idea di una scuola d’ostetricia per chirurghi, ma anche per levatrici che siano istruite nel leggere e nello scrivere, 1765.

La storia della chirurgia al femminile

La donna e lo studio della medicina

L’inizio dell’Ottocento segna l’inizio delle grandi conquiste scientifiche ma sono tutti capitoli scritti da uomini. Solo nel 1847 una donna può sedersi su un banco di una scuola di medicina, Elisabeth Blackwell. Da quel momento inizia l’avventura delle donne in medicina che vede realtà differenti fra Europa e Stati Uniti. In Europa nel 1870 Carlo XV di Svezia sottoscrive un'ordinanza pubblica in cui si concede alle donne la possibilità ed il diritto di esercitare la medicina con gli stessi sbocchi professionali degli uomini; in Francia le donne avevano diritto anche di dedicarsi alla ricerca. Invece le dottoresse diplomate dai corsi dell'Accademia di San Pietroburgo avrebbero avuto delle restrizioni nelle aree d’attività, il medesimo vale per la Polonia dove alle donne era permessa la sola attività per quanto riguardava malattie femminili e dell'infanzia.

La prestigiosa università di Harvard nel 1851 rifiutava le donne.

Non molto diversa è la storia nel nostro paese, Anja Rosenstein, vero nome della Kuliscioff, laureatasi a Napoli (1884-5), nell'88 si specializza in ginecologia, trasferitasi a Milano comincia la sua attività di "dottora dei poveri", divide la sua vita fra impegno politico ed attività medica nelle patologie femminili. Questo è anche il periodo dell’istituzionalizzazione della professione infermieristica che inizia nel 1860 con il celebre manuale di Florence Nightingale ”Notes on nursing” ove si afferma che “every woman is a nurse”.

Tra le modifiche sostanziali apportate dalla  riforma del diritto di famiglia del 1975 vi sono:

  • il passaggio dalla potestà del marito alla potestà condivisa dei coniugi sulla prole;

  • l'eguaglianza tra coniugi (si passa dalla potestà maritale all'eguaglianza fra coniugi);

  • Il regime patrimoniale della famiglia (separazione dei beni o comunione legale/convenzionale);

  • la revisione delle norme sulla separazione personale dei coniugi (dalla separazione per colpa alla separazione per intollerabilità della prosecuzione della convivenza);

  • l'abbassamento dell'acquisizione della maggiore età da 21 a 18 anni.

La riforma del diritto di famiglia

C’è un aspetto che caratterizza il grado di inciviltà di un Paese: la discriminazione. La situazione è di gran lunga peggiore quando la discriminazione è silenziosa, così silenziosa da mascherarsi di consuetudine, come quella che ha come vittime le donne nel mondo del lavoro.

Nei rapporti in merito stilati dal Parlamento Europeo, le donne hanno mediamente un titolo di studio più qualificato ed un impegno professionale maggiore rispetto ai colleghi uomini, ma godono di una retribuzione inferiore di ottomila euro annui rispetto agli uomini;  va aggiunto che spesso la loro carriera viene sacrificata per occuparsi dei figli. La crisi economica ha di gran lunga peggiorato le cose, non solo in termini di retribuzioni, che sono diminuite ancora per le donne, ma anche per il complicarsi dell’equilibrio tra i rapporti familiari ed il lavoro. Un’ulteriore indagine statistica dimostra che, secondo i cittadini europei, gran parte delle discriminazioni a danno delle donne si verifichi nei criteri di assunzione: secondo il 60% degli intervistati, sembra incidere profondamente la possibilità di un’eventuale maternità, mentre per il restante 40% gli uomini verrebbero assunti per provate qualifiche professionali. Va però precisato che solo il 20% degli intervistati ritiene importanti le esperienze professionali per l’assunzione di una donna.

In Italia la situazione è ben peggiore rispetto al resto d’Europa: la busta paga media delle donne è del 21,4% più bassa rispetto a quella degli uomini, con 1221 € al mese contro 1553; nel 1998 la differenza era del 19,1% e in due anni la retribuzione femminile è scesa del 4,6%. Da tutto ciò, un’ovvia conseguenza: le donne pagano maggiormente la crisi e sono più esposte a situazioni di marginalità e di povertà, come evidenziato dai dati Istat, secondo i quali, in Italia ”il tasso di occupazione delle donne tra i quindici ed i sessantaquattro anni è sceso nel 2012 al 46,4%”. In Europa solo Malta  è in condizione peggiore rispetto a noi. Nel Mezzogiorno, dove già il tasso di occupazione femminile era molto basso, si è accentuato il calo occupazionale a causa della crisi. Nel 2012 in Italia soltanto il 28,7% delle donne con licenza media aveva un’occupazione, contro il 37,7% medio dell’Ue. Inoltre, nel nostro paese solo le laureate di vecchia data riescono a raggiungere i livelli europei, mentre le neolaureate continuano a trovare enormi difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro. La situazione è ancora peggiore per le donne sposate e con figli: ”Considerando le 25-54enni e assumendo come base le donne senza figli, – si legge nel rapporto annuale dell’Istat – la distanza nei tassi di occupazione è di quattro punti percentuali per quelle con un figlio, di dieci per quelle con due figli e di ben ventidue punti per quelle di tre o più figli”. Inoltre, il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha rallentato l’inserimento delle donne nelle professioni più qualificate e riavviato un fenomeno di “marginalizzazione” verso occupazioni già relativamente molto “femminilizzate”. Le statistiche sono numeri,  ma danno un quadro chiaro di questa discriminazione.

Le donne nel mondo del lavoro

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