top of page

Potrebbe essere una grave discriminazione sul lavoro all’origine del drammatico suicidio di un 26enne di origine bosniaca che si è tolto la vita gettandosi dalla finestra del suo appartamento in provincia di Torino. La famiglia del ragazzo era arrivata in Italia nel 1993, dopo essere fuggita dalla guerra in Bosnia. Il padre, insieme alla moglie e ai tre figli, si era stabilito in un piccolo comune piemontese, dove l’uomo aveva trovato lavoro. Da sette anni, era impiegato come operaio presso una piccola officina.

Stando alle dichiarazioni rilasciate dai familiari ai quotidiani locali, il posto di lavoro sarebbe diventato particolarmente ostile al giovane. “ Lui mi parlava di discriminazioni, di battute acide sul fatto che fosse musulmano, di isolamento, di una riunione in cui i suoi colleghi avevano votato per mandarlo via”, denuncia il padre, che ricorda le parole del figlio: “Al lavoro non mi vogliono più. Perché sono straniero, perché sono musulmano”. “ Diceva di essere stato isolato – sottolinea la sorella – Mi parlava di stupide battute sulla mia religione. Situazioni spiacevoli che hanno pesato parecchio su un equilibrio psicologico molto delicato”.
Proprio poche ore prima di togliersi la vita, il ragazzo era stato colto da un attacco d’ansia sul posto di lavoro: si era recato al pronto soccorso, da cui era stato dimesso poche ore dopo. L’azienda in cui il giovane lavorava non ha voluto rilasciare dichiarazioni ai giornalisti.


I carabinieri hanno avviato le indagini per fare luce sulla vicenda e sulla situazione lavorativa che, se confermata, sarebbe estremamente grave. La squadra mobile di Torino, dopo varie indagini, è giunta alla verità; il giovane si era suicidato a causa del rifiuto sociale. Alla fine del processo l’azienda è stata chiusa, dopo sei mesi quell’edificio è diventato una casa famiglia per gli immigrati.

La discriminazione sul lavoro

Negli ultimi anni è il tema scottante, quello riguardante l’asserita differenza tra discriminazione territoriale e razzismo negli stadi.

La UEFA ha imposto delle regole rigorose nel calcio, cioè da articoli 11 e 18 del Codice di Giustizia Sportiva, qualifica come  comportamento discriminatorio ogni condotta che comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica". Se a commettere la violazione è un calciatore, la pena minima è di 10 giornate di squalifica. Se a commettere la violazione è il pubblico, paga la società. Le sanzioni sono chiare: settore a porte chiuse per la prima violazione, stadio chiuso per la seconda con, in casi di particolare gravità, la partita persa e altre sanzioni accessorie; in caso di ulteriore recidiva "si applicano, congiuntamente o disgiuntamente tra loro" la sanzione della perdita della gara, ulteriori porte chiuse (una o più gare), penalizzazione di uno o più punti in classifica fino addirittura all’esclusione dal campionato.

Un episodio che ha fatto discutere molto è ciò che è accaduto a Kevin-Prince Boateng, ex  centrocampista del Milan di origine Tedesca e Ghanese, che durante un'amichevole del 3 gennaio 2013 ha lasciato rabbiosamente la palla e si è infilato negli spogliatoi facendo sospendere l'incontro con il Pro Patria. Altro episodio ha visto coinvolto Mario Balotelli, per il quale ultras interisti hanno fatto addirittura il gesto della scimmia e gonfiato banane di plastica sugli spalti del San Siro. Episodi vergognosi che accadono anche nei campionati minori: Francesco Ribeiro, calciatore brasiliano del Berretti del Casale, a metà gennaio del 2013 durante una partita sempre contro il Pro Patria, ha deciso che quei cori razzisti dovevano finire e anche lui, come Boateng, ha interrotto la partita in accordo con l'allenatore e compagni di gioco.

La discriminazione negli stadi

bottom of page